Uno sguardo d’insieme sulle intolleranze alimentari
Nel corso dei secoli il rapporto che intercorreva tra medico e paziente si è modificato ed evoluto.
Il concetto stesso del medico è cambiato, la società è cambiata, lo stile di vita altamente dinamico è completamente diverso da quello di qualche anno fa, tutto si evolve con ritmi vertiginosi.
Rimanendo in questo contesto, anche il paziente ha partecipato attivamente a questo processo evolutivo, è socialmente e culturalmente cresciuto, è più aggiornato , è meno ignorante e più esigente, consapevole che deve e che può ottenere di più di una semplice risposta terapeutica.
La medicina olistica ha aperto nuove porte e mostrato nuovi orizzonti, dove il paziente può ricevere risposte diverse.
Il modesto fine di questo lavoro è nel cercare di capire un poco di più che cosa significa per un Naturopata dialogare e rapportarsi con il proprio “paziente”.
Tante scuole sono nate, innumerevoli sono le discipline specialistiche naturopatiche, ed in tutto questo mare magnum di possibilità è di fondamentale importanza saper riconoscere quelle che offrono la conoscenza e la preparazione migliore al fine di “laureare” naturopati consapevoli e preparati per poter svolgere al meglio il proprio lavoro.
La salute (una definizione oggettiva)
Essere sani significa godere di una sensazione di benessere fisico e mentale, derivante da un perfetto funzionamento di tutte le reazioni che avvengono nel nostro organismo.
Trasformazioni
Sin dai tempi più remoti il dovere del medico era di soccorrere ed il dovere del paziente era di accogliere il suo aiuto come se provenisse dal ministro di un culto con potere di vita o di morte; egli agiva per procurare un giovamento oggettivo della malattia, le sua proposte erano vantaggiose per definizione, la sua responsabilità professionale era più religiose che giuridica, quindi in caso di errore l’impunità gli era praticamente garantita.
Con il passare del tempo il rapporto medico-paziente si è e si sta ulteriormente trasformando e nella migliore delle ipotesi ci si avvia verso una evoluzione della dipendenza alla partnership.
Questo cambiamento è spesso frutto del lavoro del medico che incoraggia il paziente verso una maggiore autosufficienza, verso una più matura capacità di assumere responsabilità nei confronti della propria salute.
Un ulteriore impulso a tale fenomeno deriva anche dalla conoscenza e dall’utilizzo sempre maggiore della medicina alternativa o non convenzionale facente parte del grande mondo della medicina olistica che si contrappone con tutte le sue manifestazioni alla austera ed importante medicina allopatica.
La medicina olistica è prima di tutto un modo, cioè una metodologia clinica.
Essa riguarda il modo di essere del medico, del paziente e della loro relazione.
Per questo, pur non coincidendo con nessuna delle medicine, convenzionali o complementari , può utilizzarle tutte.
La medicina olistica nasce da un preciso atteggiamento di ogni essere umano nei confronti di se stesso, degli altri esseri viventi, dell’ambiente che lo circonda.
Si esprime attraverso uno stato di coscienza che sappia cogliere l’unità di ogni fenomeno.
Si realizza quando, medico e paziente, sanno cogliere insieme il processo unitario che li vede onde dello stesso oceano e divengono così in grado di osservare con occhi chiari; osservare cioè, se stessi, la relazione terapeutica, i “sintomi” espressi, in modo ampio e aperto, libero da schemi precostituiti o ipotesi diagnostiche.
Così facendo il medico olistico e il naturopata, di fronte al suo paziente, sapranno cogliere, piuttosto che l’aridità di un resoconto clinico da diagnosticare, la ricchezza di una vita e la bellezza di una storia personale.
Quindi il paziente, saprà diventare un po’ medico di se stesso, entrando in contatto con i propri sintomi, che coglierà come messaggeri di abitudini cronicizzate, atteggiamenti corporei, comportamenti emotivi, processi mentali, ecc..
Fondamentalmente, ritengo, che l’approccio del paziente nei confronti delle cure allopatiche sia nella maggior parte dei casi di aspettativa e di delega.
Intendo dire con ciò che pur ritenendo importanti e validi i sistemi di cura allopatici, il paziente delega e aspetta che il farmaco faccia il suo effetto, il suo coinvolgimento a livello emotivo, energetico , empatico è praticamente nullo.
Se il miglioramento avviene la “medicina” ha fatto il suo effetto, altrimenti si è sbagliata la cura.
Nel campo delle terapie olistiche , si deve invece avverare quel processo unitario dove operatore e paziente sono davvero onde dello stesso oceano, e dove il paziente deve essere in grado di poter navigare utilizzando anche le sua energie essendo totalmente coinvolto in quel processo di guarigione o di miglioramento tanto anelato.
Una nuova comprensione dei processi patologici
Nel 1999 il Worldwatch Institute statunitense ha segnalato un dato inquietante: per la prima volta il numero delle persone malate da eccesso di alimentazione nel mondo superava quello dei malati di fame.
Negli ultimi venti anni molte delle indicazioni scientifiche a favore di un’alimentazione corretta hanno dovuto scontrarsi con l’obiezione che i metodi tecnologici di coltivazione, di allevamento, di conservazione e distribuzione avrebbero rappresentato una soluzione alla fame del mondo a rischio di tossicità degli alimenti.
Oggi gli effetti di questo approccio mostrano la loro vera faccia.
Basta che una nazione cambi stile di vita e, in soli 10 anni, gli allergici balzano dal 3-4% della popolazione al 20% (e i bambini anche al 40%).
In tutto il mondo occidentale le allergie sono in continua crescita da 25 anni a questa parte e il problema delle intolleranze alimentari riguarda oggi, solo in Italia, almeno 15 milioni di persone, anche se alcuni autori stimano che il numero possa essere molto più elevato.
Le patologie di ipersensibilità sono ormai diventate un fenomeno di elevato rilievo sociale, al quale i medici devono dare una risposta pratica.
La percentuale di successo nelle cura delle allergie e delle patologie da intolleranza, che ormai devono essere considerate accuratamente dai moderni immunologi, dipende ovviamente dalla malattia, dalla sua gravità, dal suo grado di complessità.
Poiché le intolleranze alimentari sono responsabili di una minor difesa dell’organismo, alcune patologie potrebbero essere significativamente interessate; riniti, asma, congiuntiviti, dermatiti, eczemi, psoriasi, coliti.
Per altre si ipotizza l’importanza del ruolo degli aspetti immunitari dell’alimentazione, ma sembra ancora prematuro fra i fattori prioritari di considerazione.
Ciò che è importante notare è che la relazione fra patologia e intolleranza è probabilistica nel senso che la patologia può dipendere dall’intolleranza, ma non dipende necessariamente da essa.
Utilizzando la legge di guarigione totale, il soggetto che soffre di una patologia e al quale è stata diagnosticata una intolleranza, nel momento in cui elimina l’intolleranza, deve guarire dal suo problema: un generico miglioramento o un semplice allungamento delle recidive deve far continuare l’indagine delle cause al di fuori del campo alimentare.
In altre parole non si deve incorrere nell’errore di monocausa, rapportando ogni soggetto al suo profilo alimentare.
Per capire meglio questo concetto possiamo fare un piccolo esempio: prendiamo un uomo cinquantenne e gli facciamo fare uno sprint di 50 metri.
Al termine della corsa il tizio è paonazzo, ha problemi di respirazione e per recuperare impiega del tempo.
Potremmo dire a questo punto che il tizio è “intollerante” alla corsa e gli consigliamo di non correre più.
Con questa soluzione il tizio non corre più e sta decisamente meglio, ma capita che dopo un anno durante una rampa di scale ha un attacco di cuore e deve essere urgentemente ricoverato in ospedale.
Che cosa è successo?
Il tizio non era intollerante alla corsa, ma era malato di cuore.
Ovviamente, sempre ricorrendo all’esempio sopra citato, non è normale che una persona cinquantenne dopo una corsa di cinquanta metri diventi paonazzo con difficoltà respiratorie, questa patologia nasconde altre cose che devono essere accertate.
Ritornando quindi alle intolleranze, può capitare che in un soggetto che manifesti forti intolleranze a certi alimenti, si deve accertare se queste intolleranze celino per esempio dei disturbi gastro intestinali: l’intolleranza dell’alimento non è quindi la causa del problema ma è una delle conseguenze, ed è detta perciò di secondo livello.
Quali sono le intolleranze di secondo livello?
Riassumiamole:
– disturbi dell’apparato digerente
– disturbi emotivi: ansia , depressione, stress o una situazione psicologica non ottimale che si ripercuote immancabilmente nella digestione dei cibi.
Non a caso capita sentirsi dire da persone intolleranti che certe volte riescono a digerire alcuni cibi ed altre volte no.
– stile di vita scorretto: è compito del naturopata indicare la strada per una migliore azione da intraprendere al fine di riequilibrare il proprio corpo rendendolo più armonico e consono ad un corretto stile di vita.
Le poli-intoleranze
Dal momento che il sistema immunitario funziona come un tutto unico, la tendenza allergica, come quella a sviluppare intolleranze, si manifesta spesso nei confronti di più sostanze.
In genere una persona che soffre da tempo di intolleranze molteplici ha un sistema immunitario fortemente provato, incapace orami di rispondere in modo adeguato a qualsiasi stimolo.
Sovente persone con queste caratteristiche presentano contemporaneamente più malattie, tra le quali sia affiancano fenomeni di malassorbimento, patologie infiammatoria su organi differenti, disturbi del comportamento alimentare e spesso disagi psicoemotivi.
A peggiorare la situazione, va detto che non tutti i terapeuti riescono a comprendere il loro problema.
Tuttavia una corretta impostazione terapeutica volta al recupero della tolleranza riesce di norma a fornire solidi punti di appoggio per migliorare lo stato di sofferenza e aiuta la persona a ritrovare un livello accettabile di qualità della vita.
Quando il test per le intolleranze evidenzia reattività molteplici, normalmente è opportuno impostare un brevissimo periodo (2 settimane) di pulizia alimentare, che in alcuni casi deve invece prevedere la reintroduzione di alimenti inopinatamente eliminati, dopo il quale è utile seguire un test di controllo per valutare quali cibi siano realmente responsabili di una reattività.
In caso di poli-intolleranza, possono rendesi necessari diversi controlli ravvicinati prima di stabilire una dieta appropriata.
Da lì in poi, i tempi di recupero sono abbastanza rapidi, assimilabili a quelli del recupero dall’intolleranza verso le sostanze più comuni.
Spesso le persone con numerose intolleranze (per esempio a tutti i grassi, i cereali, i lieviti, il sale, il latte vaccino, il fruttosio) attraversano esperienze diagnostiche e “terapeutiche” che prevedono l’eliminazione totale per 2-6 mesi di numerosi alimenti, che determinano solo una confusione immunologia grave nel soggetto e soprattutto alterano l’equilibrio dei meccanismi alimentari di tolleranza acquisita negli anni.
Quando l’eliminazione è stata eseguita addirittura per anni (un fatto non così raro come si penserebbe), può essere necessario sondare diverse tecniche di recupero, e soprattutto và tenuta in conto la possibile componente psicoemotiva connessa alle intolleranze, non solo perché la situazione può aver accentuato questo tipo di malessere, ma anche perché normalmente i due piani si influenzano a vicenda.
Il recupero della tolleranza, in questi casi deve procedere in modo molto graduale.
Il programma dietetico deve seguire le indicazioni classiche, ma con tempi di reintroduzione più rallentati.
Il poli-intollerante deve avere infatti a disposizione il tempo per “svezzare” sia la parte immunologia sia la componente psichica dell’intolleranza, in modo da concedersi, anche psicologicamente, la possibilità di reintrodurre alimenti che per lungo tempo aveva eliminato.
La reintroduzione dei cibi per tanto tempo esclusi non provoca in genere severi problemi, a meno che questi cibi non siano stati caricati di una valenza simbolica rilevante.
Può tuttavia risultare utile il supporto con rimedi naturali a valenza psicotropa (iperico, tilia tormentosa, biancospino, valeriana, affiancati se necessario con rimedi omeopatici con lo stesso tipo di azione) e con minerali volti a riequilibrare l’eventuale malassorbimento e i neurotrasmenttitori (ad esempio una miscela di oxiprolinati di manganese, cobalto zinco, rame, magnesio, selenio) da prendere secondo una determinata posologia.
Allergie e medicina
Come tutti gli organismi – animali e piante, microrganismi, funghi, batteri e virus -l’uomo vive nell’ambiente e dell’ambiente lo circonda.
Come una corrente continua, l’ambiente fluisce attraverso di noi sotto forma d’aria, d’acqua, di alimenti, di radiazioni e campi elettromagnetici, di stimoli e percezioni.
Da questa corrente il nostro organismo trae ciò che gli serve per il proprio sostentamento e le proprie funzioni vitali.
Tutti gli elementi nocivi che si mescolano in questa corrente, e che da essa vengono trasportati, devono essere resi inoffensivi e possibilmente eliminati perché in ogni singola cellula le funzioni vitali possano mantenere il proprio equilibrio.
Se la capacità che il nostro organismo possiede di neutralizzare gli elementi nocivi è insufficiente, e se il carico tossico oltrepassa la soglia di tolleranza, l’equilibrio interno viene drasticamente alterato finché si giunge al crollo: la malattia è il segno esteriore che la battaglia per l’omeostasi, o equilibrio delle forze vitali, rischia la disfatta.
La qualità dell’ambiente da cui dipende il nostro benessere dovrebbe interessare in primo luogo, e in modo particolarmente pressante, la medicina, la scienza che si occupa della salute e della malattia dell’uomo.
Insieme alle scienze della natura, e in un costante scambio d’idee con queste, la medicina ha conosciuto negli ultimi anni uno sviluppo così travolgente da possedere, oggi, un arsenale di apparecchiature e strumenti che consentono di misurare con la massima precisione innumerevoli funzioni del nostro organismo, e di procedere agli interventi più delicati.
Si pensi, ad esempio, agli spettacolosi progressi della moderna neurochirurgia.
Parallelamente a ciò, è stata messa a punto una quantità quasi illimitata di farmaci.
Solo pochi di essi, però, aggrediscono la vera causa della malattia.
Per i dolori di ogni natura, come per i processi infiammatori, l’ipertensione arteriosa, la depressione e molti altri mali si sono trovati speciali preparati chimici che per un certo tempo bloccano il sintomo, ma questo è soltanto l’ultimo anello nella catena di manifestazioni di una malattia, mentre la vera causa che l’ha provocata continua a sussistere.
È insomma come somministrare un narcotico a una persona intirizzita perché smetta di battere i denti.
Gli effetti collaterali di queste sostanze chimiche, che in casi cronici vanno assunte a tempo indeterminato, risultano spesso considerevoli e possono causare nuovi disturbi cosiddetti “iatrogeni”, ossia causati dal trattamento terapeutico stesso, se non addirittura la morte del paziente.
In molti casi, tuttavia, queste malattie croniche sono scatenate proprio da fattori ambientali (per esempio ingredienti nocivi negli alimenti o sostanze chimiche presenti nell’ambiente), che vanno quindi” eliminati alla radice”, una volta individuata la causa.
La medicina moderna considera ovvio iniettare nel paziente un medicamento chimico all’insorgere di un qualsiasi disturbo, invece di riflettere se non sia il caso di evitare o di eliminare qualcosa, ossia il possibile fattore ambientale che scatena e mantiene la condizione morbosa.
Questo nuovo e più ragionevole modo di procedere risparmierebbe molte sofferenze al paziente e molte spese alle casse della previdenza sociale.
Non si fraintenda: in determinate situazioni, lenire il sintomo (come ad esempio un dolore spasmodico) è un dovere medico e umano.
Nello stadio terminale del cancro, calmare il dolore è la sola cosa che il medico può ancora fare per il suo paziente.
E ancora: senza antistaminici non si risolve la febbre da fieno, e in caso di disfunzioni e deficienze ormonali (ormone tiroide o, ormone di crescita, insulina ecc.) è necessario compensare la carenza con preparati sintetici.
In molti casi, tuttavia, i medicinali potrebbero essere evitati, o almeno assunti in dosi ridotte se ci si desse la pena di cercare le cause scatenanti della malattia.
Particolarmente tragici sono i casi in cui giovani pazienti (spesso bambini in tenera età!) vengono sottoposti a terapie volte a reprimere il sintomo all’insorgere di un disturbo cronico (reumatismo delle parti molli, poliartrite, asma, eczema, colite ulcerosa ecc.) con il rischio di farne degli “handicappati da cortisone” per tutta la vita.
Proprio queste malattie sono in gran parte reazioni allergiche, per esempio a cibi consumati abitualmente.
In questi ultimi anni i medici (e innanzitutto gli allergologi, i dermatologi, gli otorinolaringoiatri e i pediatri) hanno potuto constatare una progressiva diffusione delle malattie allergiche nei loro pazienti.
Le allergie sono diventate così vere e proprie “malattie sociali”.
Un’indagine del 1984, realizzata per incarico della Lega Allergici e Asmatici, ha rivelato che negli ultimi 40 anni le malattie allergiche si sono più che quadruplicate.
Di qui si deduce che attualmente circa 25 milioni di cittadini della Repubblica Federale Tedesca ne sarebbero affetti: ossia più di un terzo della popolazione complessiva.
Va aggiunto che in questo quadro sono comprese soltanto le allergie riconducibili ad anticorpi IgE mediante cutireazione e RAST (Radio-Allergo-SorbentTest) come le riniti allergiche e le congiuntiviti (ad esempio il “raffreddore da fieno”), le neurodermiti, l’asma allergica, l’orticaria, le reazioni allergiche del tratto gastrointestinale.
Nel 2000 è stato indicato sul giornale federale della salute (si tratta di una pubblicazione del governo), il numero degli allergici in Germania sarebbe circa il 50% della popolazione, che sarebbe affetta da allergie d’ogni tipo.
La medicina classica traccia un confine tra le “vere” allergie e le pseudoallergie o intolleranze (ad esempio reazioni allergoidi a determinati medicinali) e considera cause scatenanti di reazioni allergiche soprattutto gli allergeni naturali (pollini, polvere domestica, muffe, peli animali, piume ecc.) preoccupandosi solo secondariamente di indagare sui medicinali e su alcune sostanze chimiche.
I possibili sintomi vengono pertanto limitati alle cutireazioni e alle mucoreazioni.
Ma un allergene, o un sintomo, su cui non s’indaga non potrà mai venire individuato!
Parallelamente alle allergie, nei paesi industrializzati sono aumentate con ogni evidenza anche le turbe psichiche (depressioni, stati ansiosi, iperattività).
Molti medici statunitensi e britannici, ipotizzando in tutto ciò un nesso causale, hanno potuto segnalare che sintomi dovuti ad allergie o ipersensibilità possono manifestarsi non solo nella pelle o nelle mucose, ma anche in tutti gli organi del corpo, compreso il cervello con le sue funzioni
Perfino una “classica” allergia al polline (raffreddore da fieno) può andare di pari passo con una depressione e manifestarsi sotto forma di iperattività o perfino di dolori muscolari o articolari.
Negli ultimi decenni, l’uomo ha profondamente mutato il suo ambiente naturale che è, al tempo stesso, l’ambiente di tutti gli organismi viventi.
La chimica ha prodotto numerosissime sostanze mai esistite prima in natura, molte delle quali sono più o meno tossiche: ciò significa che in determinate quantità possono danneggiare o uccidere degli organismi viventi, uomo incluso.
Mediante procedimenti tecnici, vari metalli pesanti tossici, che in natura sono fissati sotto forma di minerale greggio nelle rocce, sono stati mobilizzati e diffusi in tutto 1’ambiente naturale. Insieme agli idrocarburi alogenati e alle scorie radioattive, questi metalli sono la più grossa, costante e sempre crescente ipoteca sul mondo in cui viviamo.
Le “sostanze artificiali ambientali”, ossia i prodotti di sintesi fabbricati e diffusi – insieme ai loro sottoprodotti – nell’ambiente naturale, rappresentano uno dei campi oscuri della medicina per quanto riguarda i loro effetti sulla nostra salute e quella dei nostri figli e delle generazioni a venire.
Inoltre, i dati delle ricerche sugli animali non possono applicarsi indiscriminatamente all’uomo, poiché nei laboratori si allevano ceppi di animali da esperimento che, col tempo, finiscono col presentare le stesse caratteristiche ereditarie, senza contare che le ricerche vengono condotte in condizioni controllate: stessa nutrizione, stesso ambiente, assenza di fattori aggiuntivi e incontrollati a carico dei singoli individui.
I membri di un qualsiasi gruppo umano, al contrario, sono geneticamente molto diversi , appartengono a fasce d’età diverse e sono esposti a tutti i possibili fattori aggiuntivi a loro carico (infezioni, stress, conflitti emotivi ecc.).
Tutti questi fattori possono influenzare la reazione del singolo, per esempio a una sostanza chimica presente nell’ambiente.
Quanto alle espressioni “dosi massime tollerabili”, “concentrazione massima nei luoghi di lavoro”, “valori limite” delle sostanze nocive … esse si riferiscono generalmente all’individuo “tipo”, definibile più o meno come: peso corporeo 70 kg, ventenne, sano, abile al servizio militare.
Ma questa valutazione non tiene conto del fatto che donne, bambini, anziani, ammalati e soprattutto lattanti e nascituri possano reagire con una sensibilità molte volte maggiore.
Un agente chimico nocivo può avere effetti diversi sul nostro orgamsmo:
a. come veleno, può interferire nei processi metabolici, ad esempio bloccando un enzima, o aggredendo e distruggendo parti essenziali della cellula.
L’effetto tossico è maggiore se la sostanza viene immagazzinata nell’organismo;
b. come cancerogeno e co-cancerogeno provoca o accelera la formazione di neoplasie maligne (verosimilmente in modo primario a causa del danno al materiale genetico delle cellule somatiche);
c. come teratogeno può provocare malformazioni nell’ embrione (ad esempio le diossine sono teratogeniche).
d. come mutageno altera il patrimonio genetico, aggredisce il DNA anche delle cellule riproduttive, provocando nelle generazioni seguenti deficienze e difetti funzionali, fino all’assenza di vitalità. Generalmente una sostanza mutagena è anche cancerogena.
e. come allergene (cioè sostanza che scatena un’allergia) può causare reazioni di ipersensibilità, attraverso una sensibilizzazione specifica dovuta, generalmente ad una prolungata e ripetuta azione sull’organismo (attraverso il contatto epidermico, l’inalazione, l’assunzione con alimenti e bevande o anche l’iniezione).
Nelle reazioni da ipersensibilità non allergiche non è stata finora dimostrata alcuna partecipazione del sistema immunitario.
Conosciamo 2 meccanismi d’azione:
1. problemi causati da amine biogene
2. azione diretta di sostanze estranee sui mastociti che, in seguito, scaricano alcuni mediatori delle reazioni infiammatorie allergiche.
I sintomi sono gli stessi delle vere allergie; l’onnipresente formaldeide dà, come minimo, delle reazioni.
Anche per altre sostanze nocive ampiamente diffuse, come per esempio numerose componenti di materie plastiche e idrocarburi alogenati (pesticidi ecc.) è possibile ipotizzare effetti multipli.
Dei 12 milioni circa di prodotti chimici prodotti finora in laboratorio, al momento ne sono commercializzati 100.000 circa che coinvolgono direttamente la vita dell’uomo.
Solo su pochi sono stati eseguiti esami tossicologici accurati, soprattutto per quanto riguarda l’effetto prolungato sulla salute e sull’ambiente.
Di circa 3.000 sostanze è nota finora la potenziale cancerogenità: tra queste si annoverano anche alcune “sostanze naturali”, come ad esempio le aflatossine prodotte da muffe, di elevatissima tossicità.
L’industria chimica e molti scienziati e sanitari in stretto rapporto con essa, sviano spesso e volentieri il discorso quando si tocca questo argomento, facendo notare che anche la natura ha la riprovevole tendenza a produrre veleni.
In effetti, il veleno mortale più potente finora conosciuto è la tossina botulina del batterio Clostridium botulini che si sviluppa sulla carne putrida e altri alimenti ad alto contenuto albuminico.
Nei confronti di questo rischio, tuttavia, l’uomo ha da tempo imparato a regolarsi, potendo evitarlo con relativa facilità.
In ogni caso, la botulina può essere resa inoffensiva da una cottura prolungata e, in fin dei conti, non ci aleggia intorno al naso uscendo da uno scappamento d’auto, né esce dai rubinetti di cucina. Invece sono senz’altro reali le occasioni di ingerire quotidianamente, e a nostra insaputa, delle aflatossine (e precisamente col latte di mucche alimentate a foraggi provenienti da paesi del Terzo Mondo).
Anche il tritello di arachidi o di soia proveniente da residui di spremitura olearia, sviluppa muffe durante lo stoccaggio e il trasporto in climi tropicali: le aflatossine e altre micotossine (veleni prodotti da fughi o muffe), essendo termoresistenti, non si eliminano con la cottura.
Molti ricercatori statunitensi hanno espresso i loro timori in proposito, affermando che “in particolar modo i bambini, assumendo ogni giorno piccole quantità di queste sostanze, sono notevolmente più sensibili a sostanze tossiche ambientali analoghe a queste, o anche diverse, come certi pesticidi”.
Una delle argomentazioni favorite dell’industria chimica per respingere questa tesi è che svariate sostanze chimiche da noi prodotte si trovano anche in natura: le mele contengono tracce di fenolo; l’anidride solforosa viene liberata durante le eruzioni vulcaniche; la formaldeide si produce in continuazione nell’atmosfera, nel corso di processi foto chimici e combustioni incomplete.
E per quanto riguarda la radioattività, nessun luogo della Terra è completamente libero da radioattività naturale: nel potassio (minerale vitale nel nostro organismo) è contenuto fino allo 0,012% di potassio 40, un isotopo naturale che emette raggi beta.
Se nonostante la presenza di questi fattori di rischio naturali gli organismi viventi continuano a esistere, svilupparsi e moltiplicarsi da 4 miliardi di anni, e gli esseri umani da circa 3 milioni di anni, va tuttavia osservato che c’è una certa differenza tra respirare con l’aria pura 0,01 ppm (parti per milione = 0,01 particelle per 1 milione di particelle d’aria) di formaldeide, e respirarne cento volte tante in un appartamento “moderno”, insieme a qualche altro centinaio di sostanze di sintesi a cui l’organismo umano non è adattato.
Il grande asso nella manica dei paladini della chimica è: In fondo, tutto è chimica!
Lo è il nostro corpo, coi suoi processi metabolici; lo sono i nostri alimenti; lo è l’aria che respiriamo.
Ma la replica non può essere che questa: “Proprio per questo i nostri processi vitali – in quanto reazioni chimiche estremamente complesse che si svolgono in strutture molecolari finissime e sensibilissime – sono suscettibili di venir disturbati da sostanze estranee. E proprio in quanto chimica, il nostro corpo è vulnerabile di fronte alla chimica”.
Il nostro organismo è in grado di elaborare una quantità di fattori ambientali nocivi grazie alla sua capacità di auto-disintossicazione, di immunoreazione, di controregolazione: in una parola, di adattamento.
Ma la capacità di adattamento non è illimitata, e si esaurisce quando il carico complessivo si fa troppo pesante e dura troppo a lungo.
A ciò si aggiunga che, palesemente, determinati veleni ambientali aggrediscono e indeboliscono proprio i meccanismi di disintossicazione dell’organismo.
Per limitarci a pochi esempi: i pazienti più esposti al danno derivante da formaldeide o pesticidi presentano di solito un’abnorme riduzione di linfociti T, cellule difensive del sistema immunitario.
Alcuni solventi e detersivi, come percloroetilene, cloroformio e tetracloruro di carbonio, danneggiano il fegato, cioè l’organo nel quale avviene la disintossicazione. Solventi e pesticidi sono inoltre altamente neurotossici, ossia agiscono come veleni sul sistema nervoso.
Le “malattie da ambiente” si manifestano perciò non solo come allergie e ipersensibilità a sostanze naturali e sintetiche (ad esempio con l’intolleranza per determinati alimenti), ma anche come una maggiore predisposizione alle infezioni e come danni psichici e turbe del sistema nervoso.
Un altro punto che non viene di solito toccato nel dibattito sui problemi ambientali è che l’uomo dei paesi più avanzati ha acquisito una maggiore vulnerabilità anche per via delle sue caratteristiche genetiche.
Prima che la medicina trovasse armi efficaci contro le malattie infettive (vaccini, misure igieniche, antibiotici), alle grandi epidemie ricorrenti di peste, vaiolo, colera, difterite, poteva sopravvivere soltanto chi avesse ereditato un sistema immunitario efficiente.
I bambini in tenera età con serie deficienze metaboliche congenite erano destinati a morire senza scampo.
Non è certamente il caso di rimpiangere queste spietate selezioni naturali, avendo la medicina l’irrevocabile compito umanitario di conservare la vita in pericolo; tuttavia occorre fare i conti col fatto che nella popolazione attuale vive un sempre maggior numero di individui meno capaci di tollerare il carico rappresentato dai problemi ambientali.
È dunque tanto più urgente provvedere alla salute del nostro ambiente per evitare ulteriori carichi da sostanze tossiche.
L’atteggiamento della medicina odierna, a questo proposito, appare diviso.
Molti medici attenti e responsabili (per lo più medici generici di base) osservano un aumento costante dei pazienti (soprattutto bambini) affetti da svariati disturbi allergici, spesso refrattari alle terapie classiche. Alcuni di questi medici, che attualmente collaborano con gruppi spontanei di mutua assistenza, non si stancano di segnalare pubblicamente i crescenti pericoli a cui stiamo andando incontro continuando ad agire in modo irresponsabile nei confronti dell’ambiente.
La Lega Medica Ecologica fondata in Germania si prefigge di informare la popolazione sui problemi ecologici e le loro reciproche concatenazioni, collaborando con esponenti politici e industriali, associazioni ambientaliste, iniziative di base, gruppi spontanei di mutua assistenza.
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna un’associazione medica (Academy far Environmental Medicine, già Society far Clinical Ecology) lavora da decenni nel campo delle malattie da inquinamento ambientale.
I suoi membri sono stati i primi a riconoscere il ruolo delle allergie alimentari nell’insorgenza di malattie croniche e turbe psichiche.
Risale agli anni Cinquanta la segnalazione del dottor Randolph, fondatore dell’ecologia clinica, del
fatto che pesticidi derivati del petrolio e gas di scarico possono provocare molteplici reazioni di ipersensibilizzazione.
La medicina accademica ha riconosciuto nel frattempo che i veleni ambientali rappresentano una possibile causa di questi problemi in persone non stressate dal lavoro, e che essi svolgono un ruolo importante nella formazione di allergie.
In Germania la “medicina ambientale” può essere esercitata da medici di tutte le categorie, ma ci si deve chiedere se un’istruzione aggiuntiva (200 ore di teoria e pratica) sia sufficiente per diagnosticare e trattare in modo corretto i problemi di pazienti esposti a inquinamento ambientale.
Il ritmo al quale le “malattie da ambiente” stanno aumentando appare sempre più accelerato.
Il numero degli individui che reagiscono in modo allergico a quasi tutto ciò che toccano (sostanze sintetiche e sostanze naturali o alimenti) va aumentando, secondo ogni evidenza, anche da noi.
Nelle cliniche ecologiche, questi soggetti vengono definiti “reattori universali”: un quadro clinico che adesso viene definito come MCS (multiple chemical sensitivity).
Il dottor Mumby, ecologo clinico inglese, al III Simposio Internazionale di Medicina Ambientale tenuto si nel 198 7 a Emstal ha usato questa similitudine: “Un tempo, nelle miniere inglesi, i minatori portavano con sé una gabbietta di canarini quando dovevano penetrare in una galleria sospetta. Se i canarini cadevano dal posatoio, i minatori battevano precipitosamente in ritirata. Ebbene, gli universal reactors sono i canarini della nostra società!”.
Allergie e intolleranze alimentari
Le allergie alimentari presentano una prevalenza del 3-4% negli adulti e del 6% in età pediatrica (J Allergy Clin Immunol2006: 117, 2 suppl. : 8470-8475).
Le allergie alimentari compaiono più frequentemente in età infantile e di solito tendono a scomparire con il passare degli anni, ma possono anche manifestarsi per la prima volta in età adulta.
La prevalenza delle allergie alimentari sembra inoltre dipendere dalle abitudini alimentari individuali (consumo eccessivo o prolungato o esclusivo dell’alimento in causa) e dalle abitudini alimentari tipiche dei diversi paesi (allergia a crostacei e molluschi nei paesi mediterranei, allergia al pesce nei paesi scandinavi, allergia alle arachidi negli USA, ecc.).
In genere, gli alimenti che determinano con maggior frequenza manifestazioni cliniche di allergia alimentare sono: uova, latte, pesce, crostacei, arachidi, nocciole, soia, frumento, seguiti poi da vegetali come mela, noce, sedano, pomodoro, banana, kiwi, pesca, carota, pera.
Una appropriata eliminazione dalla dieta degli alimenti responsabili di solito comporta una regressioni delle manifestazioni cliniche, sebbene un rapido controllo della sintomatologia acuta richieda spesso il ricorso alla terapia farmacologica (Annu Rev Nutr 2006, 26, july 17).
La conoscenza dei componenti dell’alimentazione più frequentemente in causa costituisce il presupposto teorico essenziale per un corretto iter diagnostico-terapeutico delle reazioni avverse al cibo.
L’European Academy of Allergy and Clinicallmmunology, al fine di stabilire un linguaggio comune riguardo le reazioni avverse agli alimenti, ha proposto una classificazione basata esclusivamente sui meccanismi patogenetici (Allergy 1995, 50: 623-635).
Una prima distinzione fondamentale è quella tra reazioni tossiche causate da sostanze nocive contenute negli alimenti ingeriti (esempi tipici sono l’intossicazione da funghi e la gastroenterite causata da tossine batteriche contenute in cibi avariati) e reazioni non tossiche dipendenti da un’abnorme risposta individuale ad alcuni componenti di alimenti igienicamente sani e tossicologicamente non nocivi.
Queste ultime reazioni poi si suddividono patogenicamente in Allergie Alimentari che sono immunomediate (lgE e non IgE mediate) e Intolleranze Alimentari che invece non sono immunomediate ma vengono prodotte con meccanismi di tipo enzimatico, metabolico, farmacologico, idiosincrasico o ancora sconosciuto .
Allergeni nascosti
Nei singoli alimenti si possono riscontrare allergeni imprevisti in quanto non propri della naturale composizione dell’alimento e dovuti a contaminazione tra alimenti, cross-reattività tra allergeni alimentari (ad es. tra arachide e soia: appartengono infatti entrambe alla famiglia delle leguminose), uso di sostanze allergizzanti indicate con nome generico o non dichiarate nelle etichette, indicazioni non corrette delle sostanze utilizzate per la preparazione degli alimenti, nomenclature complesse e diverse nei vari paesi, alimenti transgenici, contaminazioni con additivi intenzionali (conservanti, coloranti, addensanti, ecc.) o additivi accidentali (sostanze inquinanti, antibiotici per uso veterinario, pesticidi, ecc.).
Ad esempio, la soia è usata in moltissime preparazioni come ingrediente aggiuntivo, stabilizzante nei prodotti a base di cereali, e nella carne.
Le gomme di origine vegetale vengono usate come addensanti o stabilizzanti.
Così pure sono d’uso comune come ingredienti aggiuntivi le arachidi, il frumento, le uova e il latte.
Infine va considerato che esistono alcuni allergeni termolabili (ad esempio allergeni di mele, patate e carote) e altri termostabili (ad esempio alcuni allergeni del latte vaccino, di albume d’uovo e di arachidi) per cui anche la preparazione e la cottura dei cibi può influire sul loro potere allergizzante.
Diagnosi
Le manifestazioni cliniche di allergia possono interessare diversi organi e apparati:
– gastroenterici: sindrome orale allergica (prurito oro-faringeo con papule o vescicole ed edema labiale), nausea, vomito, dolori addominali crampiformi, diarrea.
– cutanei: orticaria, angioedema al volto, dermatite atopica, prurito
– respiratori: rinite, asma bronchiale, edema laringeo.
– cardiovascolari: shock anafilattico
– neurologici: cefalea, convulsioni
Quando la sintomatologia è acuta, ricorrente o ad esordio immediato, spesso il paziente sa riferire un rapporto presunto di causa-effetto con uno o più alimenti.
Allora si conferma la diagnosi attraverso la ripetuta positività di un test di provocazione, consistente nel somministrare di nuovo l’alimento ritenuto responsabile per verificare l’effettivo scatenamento dei sintomi precedentemente accusati, attuabile solo se i sintomi non presentavano una gravità tale da controindicare l’esecuzione del test (es. shock anafilattico); in questi casi, una volta individuati gli alimenti responsabili, la terapia dietetica consiste semplicemente nella loro esclusione dalla dieta, escludendo anche i cibi che danno re attività crociata (J Allergy Clin /mmuno/1984, 73/6: 749-62).
Va ricordato che i test di provocazione alimentare possono accertare la diagnosi di reazione avversa ad un alimento ma non identificare il meccanismo patogenetico con cui questa avviene.
L’impiego di test epicutanei (prick test) e della ricerca nel siero di IgE specifiche con il metodo RAST o ELiSA ha l’obiettivo di riconoscere una patogenesi IgE mediata ad una reazione avversa ai cibi già diagnosticata con i test di provocazione alimentare, ma spesso da risultati che non concordano con l’esito dei più specifici test di provocazione alimentare.
Trattamento
Il trattamento delle allergie ed intolleranze alimentari consiste essenzialmente nell’escludere dalla dieta i cibi in causa.
Ciò presuppone la conoscenza della composizione degli alimenti, necessaria per individuare le sostanze in causa soprattutto se contenute nei cibi in forma inapparente come gli additivi oppure se capaci di dare re attività crociate come è tipico di diversi allergeni.
Se la sintomatologia evocata da un allergene ingerito è ad esordio tardivo o è cronica, cioè continuativa da almeno 6 settimane, spesso il paziente non appare in grado di individuare gli alimenti responsabili in base all’anamnesi.
Allora il paziente può essere sottoposto per un periodo di 2-5 settimane a una dieta base restrittiva e ipoallergica che ha lo scopo di far regredire i sintomi con l’eliminazione contemporanea di quasi tutti gli alimenti potenzialmente più allergizzanti .
Un esempio di dieta restrittiva è la dieta di Sheldon a base di riso (in alternativa: patate), carne di agnello (in alternativa: coniglio, tacchino), lattuga (in alternativa: carote), olio extravergine d’oliva, sale, zucchero di canna, acqua minerale.
Una volta risolta la sintomatologia con la dieta base, si prosegue con una dieta di provocazione, consistente nell’integrare la dieta base risultata efficace con l’inserimento progressivo di singoli alimenti o di gruppi di alimenti antigenicamente affini (tabelle 2-4), da introdurre in successione ad intervalli di almeno tre giorni per verificare con certezza la loro eventuale responsabilità anche nell’insorgenza di reazioni ritardate.
L’alimento o il gruppo di alimenti che si dimostrano tolleranti vengono mantenuti nella dieta mentre invece quelli che provocano manifestazioni cliniche vengono identificati ed esclusi dalla dieta dopo aver ripetuto il test di provocazione per verificare con certezza il rapporto casuale.
L’impiego delle diete di eliminazione e provocazione, se non controindicato dalla gravità delle reazioni awerse evocate, risulta utile allo scopo finale di ottenere, mediante la costante compilazione di un diario alimentare, un elenco di alimenti e/o additivi alimentari non tollerati da escludere ed un elenco di quelli tollerati da poter mantenere con sicurezza nella dieta.
L’esecuzione corretta della dieta di provocazione richiede l’uso di alimenti puri, cioè senza additivi e assunti nelle quantità abituali.
Dato che nella prima infanzia le allergie alimentari sono prevalentemente imputabili al consumo di uova, latte e derivati, allo scopo di evitare l’imposizione di un’inutile ed eccessiva restrizione alimentare, difficile da seguire con costanza, nei bambini con eczema topico è stato proposto con successo l’impiego di uno schema dietetico che prevede per un periodo di venti giorni solo l’esclusione di latte e derivati e poi per un uguale periodo di uova e derivati (Arch Ois. Child 1983, 58: 463).
Se questo schema dietetico non da un miglioramento clinico, si può comunque ricorrere nei bambini ad una dieta base ipoallergica, ad esempio a base di riso e di idrolisati proteici, a base di amminoacidi di sintesi oppure a base di soia che però può essere anch’essa allergizzante (Recenti Progressi in Medicina 1999, 90\9: 473).
Tra le reazioni awerse al cibo mediate da meccanismi immunologici va considerato anche il morbo celiaco che si cura eliminando dalla dieta gli alimenti contenenti glutine e si può diagnosticare con la ricerca nel siero di anticorpi antiendomisio e anti-gliadina.
Terapie nelle intolleranze alimentari
Nel valutare gli effetti clinici delle diete ipoallergiche è necessario considerare che ogni alimento è costituito da varie componenti sia proprie sia estranee, cioè derivanti dai processi di produzione, preparazione e conservazione a cui viene sottoposto e a volte anche derivanti da contaminazioni accidentali.
Tutte queste componenti sono possibili cause di reazioni awerse al cibo e non sempre la loro presenza è dichiarata o riconosciuta nell’alimento in esame.
Tra i componenti naturali dei cibi particolare importanza clinica ha l’istamina (Brit J Pharm 1987, 90: 123).
Infatti gli alimenti ricchi o liberatori di istamina, riportati sono in grado di provocare le stesse manifestazioni cliniche dell’allergia ma con un patogenesi non immunologica.
E’ necessario dunque considerare anche la loro potenziale responsabilità con la prova di eliminazione e di provocazione se all’anamnesi risulta il consumo di tali alimenti e se la gravità delle reazioni evocate non controindica l’esecuzione della prova.
Altri componenti naturali dei cibi potenzialmente capaci di provocare reazioni awerse con meccanismo farmacologico sono xantine e metilxantine (contenute ad es. in caffè, tè, cioccolato, cola e numerose altre bibite analcoliche) e amine biogene quali dopamina, tiratina e serotonina (contenute ad es. in formaggi, vino, banane, ananas).
Anche gli additivi alimentari, riportati nell’elenco parziale in , possono causare reazioni di intolleranza alimentare.
Tra questi si segnala la tartrazina, i solfiti, i benzoati, i salicilati, il glutammato sodico, i sorbati, i nitriti e i nitrati.
La superficie di alcuni alimenti spesso è maggiormente esposta a contaminazioni, in particolare da additivi alimentari, per cui, ad esempio, è raccomandabile lavare bene la verdura e frutta, consumarla sbucciata e togliere la crosta ai formaggi.
Va ricordata anche la possibilità di reazioni awerse al nichel contenuto, ad esempio, in conserve in scatola, burro, margherita, pomodori, fagioli, piselli, farina di grano integrale, aringhe, ostriche, pere, cacao, cioccolata, birra, vino e tè (Giorn It Allergollmmunol Clin 1996,6: 4-9).
Inoltre, additivi di usuale impiego industriale come il balsamo del Perù (contenente anche benzoati, cinnamati e vanillina) si riscontrano, spesso senza essere dichiarati, in bibite analcoliche come la coca e nelle cioccolate.
Tra le reazioni awerse al cibo va infine considerata anche l’intolleranza allattosio, dovuta ad un deficit dell’enzima lattasi, diagnosticabile col breath test e curabile eliminando dalla dieta latte e derivati.
Conclusioni
Le allergie e intolleranze alimentari si diagnosticano essenzialmente con una dieta di restrizione e di provocazione, fondata su una buona conoscenza degli alimenti.
Il riconoscimento dell’alimento in causa può dare una prospettiva di vita qualitativamente migliore ai pazienti.
Tuttavia quando gli alimenti in causa sono molti la dieta può risultare molto limitante e quindi difficile da seguire con costanza a lungo termine.
Allora può risultare essere utile un trattamento preventivo con antistaminici.
La dieta mediterranea
È noto come la dieta mediterranea si associ ad una riduzione del rischio di sviluppare malattie del sistema cardiovascolare.
La dieta mediterranea è costituita sostanzialmente da un maggior uso di prodotti derivati da grano integrale, olio di oliva, frutta, verdura, nocciole, alimenti che sono più ricchi di grassi monoinsaturi e poliinsaturi e fibre e poveri di grassi omega6-omega3.
Le abitudini alimentari dei paesi della regione sud europea, caratterizzate da un minor consumo di grassi saturi e un maggior consumo di frutta, verdura, pesce, olio di oliva, comportano nell’organismo un netto miglioramento di numerosi parametri metabolici che determinano un profilo di rischio vascolare inferiore.
L’ultimo numero del Journal of American Medicai Association ha prestato una particolare attenzione agli effetti di prevenzione cardiovascolare determinati da questa condotta alimentare, dedicando all’argomento due articoli originali ed un editoriale.
Un ampio studio italiano condotto presso la Seconda Università di Napoli ha voluto indagare gli effetti favorevoli della dieta mediterranea sulla sindrome metabolica.
Si tratta di una delle patologie del ricambio oggi assai diffusa e di cui si parla molto anche per l’elevato rischio cardiovascolare; alla base di questo disturbo vi è una resistenza all’insulina che comporta in diversa associazione iperglicemia o diabete conclamato, ipertensione arteriosa, ipertrigliceridemia con bassa concentrazione di colesterolo HDL, obesità.
Dalle caratteristiche della malattia è facile dedurre come un intervento dietetico opportuno possa avere un effetto determinante sul quadro clinico e metabolico dei soggetti affetti.
Lo studio ha dimostrato, infatti, un netto miglioramento nei pazienti con sindrome metabolica assegnati ad un comportamento alimentare tipico della dieta mediterranea, al confronto con un gruppo di controllo di soggetti sottoposti comunque ad un regime dietetico prudente ed equilibrato -50-60% di carboidrati, 15-20% di proteine, grassi totali inferiori al 30%, di cui saturi inferiori a 10%. Dopo due anni di osservazione nei soggetti sottoposti a dieta mediterranea si è riscontrato un più significativo calo ponderale (con più marcato calo di indice di massa corporea e circonferenza addominale), una maggiore riduzione di colesterolemia, trigliceridemia, glicemia, ed un maggior aumento di colesterolo HDL; inoltre valori più bassi di pressione arteriosa.
Tuttavia gli autori dello studio non si sono fermati a questi dati, ed hanno cercato di indagare se vi fossero ulteriori meccanismi di interesse nel ridurre il rischio cardiovascolare.
Hanno considerato quindi la funzione endoteliale e gli indici di flogosi vascolare , parametri che risultano quasi sempre alterati nei soggetti con sindrome metabolica.
La disfunzione endoteliale, valutata con il test con iniezione di L-arginina, e gli indicatori di infiammazione (proteina C-reattiva ad alta sensibilità, interleukina 6, 7 e 18) sono risultati decisamente migliorati nei pazienti sottoposti a dieta mediterranea.
Anche la resistenza all’insulina, meccanismo patogenetico principale della sindrome, calcolato con il semplice indice di HOMA (Homeostasis Model Assessment, descritto da Matthews et al nel 1985: glicemia a digiuno X insulinemia a digiuno diviso per 25) è risultata significativamente ridotta nel gruppo in studio rispetto a quello di controllo.
La correzione degli squilibri tipici della sindrome metabolica ottenuta con la semplice ma attenta adesione al modello alimentare della dieta mediterranea ha determinato dunque una più significativa riduzione del rischio cardiovascolare connesso a tale patologia.
Nello stesso numero della rivista un gruppo europeo internazionale comprendente esperti di Olanda, Francia, Spagna e Italia ha pubblicato i risultati di una ricerca ancora più ampia e completa che ha dimostrato come la dieta mediterranea associata ad uno stile di vita più salutare – un moderato consumo di alcool, l’astensione dal fumo, attività fisica regolare – sia in grado di ridurre del 50% il tasso di mortalità per tutte le cause (coronariche, cardiovascolari e neoplasie).
La ricerca costituita da un periodo di osservazione di 10 anni ha fatto riferimento ad una popolazione anziana (età 70-90 anni), in condizioni di buona salute ed esente da malattie croniche.
Il fatto che i singoli prowedimenti che caratterizzano un corretto stile di vita siano in grado di migliorare la soprawivenza in soggetti anche in età avanzata è noto e facilmente comprensibile, ma l’evidenza che l’associazione fra tutti questi prowedimenti e la dieta mediterranea abbia un effetto additivo casi importante, come dimostrato dallo studio, è senz’altro un dato sorprendente e di grande rilievo.
Gli autorevoli autori dell’editoriale che accompagna i due articoli nello stesso numero di JAMA, sottolineando il particolare interesse di tali ricerche, concludono con una semplice ma arguta riflessione: in una società come quella degli Stati Uniti che spende miliardi di dollari per il trattamento delle malattie croniche e per interventi di prevenzione sarebbe di ancor più grande beneficio investire nella promozione di uno stile di vita più salutare per una efficace prevenzione primaria.
Bibliografia:
Esposito K, Martella R, Ciotola M, et al.
Effect of a Mediterranean-style diet on endothelial dysfunction and markers of vascular inflammation in the metabolic syndrome: a randomized tria!.
JAMA. 2004:292:1440-1446.
Knoops KTB, De Groot LCPGM, Kromhout, et al
Anne Colatin : ALLERGIE alimentari e ambientali Giunti editore
Rino Clemente Zironi: Diagnosi e terapia delle allergie e delle intolleranze in medicina complementare
Attilio e Francesca Speciali: intolleranze alimentari: guarire mangiando – Fabbri editori
Dott. Stefano Carlucci
Farmacista, Funzionario Azienda Farmaceutica
Naturopata, specializzato in Iridologia, Floriterapia di Bach, Riflessologia, Aromaterapia e Alimentazione naturale e intolleranze
www.altrobenessere.it