Monografie

Il Corpo: luogo di luoghi

Una riflessione in forma di lettera sull’idea di corpo

Si dice che la medicina moderna fondi il suo poderoso castello teorico sull’anatomia, sul sezionamento, l’analisi e la classificazione delle parti, su un paradigma metodologico troppo spesso dato acriticamente per scontato, anche quando la sua capacità euristica appare decisamente in crisi, lontana da quell’alone di sacra oggettività  che sembra ancora suggestionare alcuni oscuri funzionari del Potere Scientifico Istituzionale.
Nel dedalo intricato della materiale corporeità  del cadavere, in questo luogo apparentemente nudo, spoglio e colmo di infiniti limiti da svelare per l’esibizione inefficace dell’ennesima pubblicazione scientifica, la Medicina Moderna sembra essersi smarrita.
Appollaiata sulla sua rassicurante ragnatela di nozioni, essa stessa risulta prigioniera di un macroscopico equivoco, una seducente Superstizione analoga a quella che, secondo il filosofo Popper, seppe imprigionare persino personaggi come Galilei, Keplero e Newton.
Non è tanto la pregevole descrizione del corpo umano in questione, nè, tantomeno,  le storie di talento, studio e passione di cui è nobile traccia, quanto un pericoloso retropensiero, un equivoco di fondo, un concetto di corporeità limitato e limitante nell’attuale ars medica. 
Il corpo umano non è, non è mai stato e, probabilmente, non riuscirà mai ad essere per la scienza un oggetto semplice, declinabile in modo univoco nel tempo e nello spazio.
Eppure dalla Conoscenza di questo Giocattolo Miracoloso, della sua enigmatica inconsistenza, dipende il nostro precario equilibrio tra salute e malattia.
Nessun determinismo spicciolo, artificio causale che riduce tutto al gioco di pochi elementi, può cancellare l’evidenza scientifica crescente del network, della rete di mediatori che stabilisce regole e rapporti, nella salute come nella malattia, quell’approccio olistico che ieri come oggi appare strumento indispensabile al sapere medico ed alla rilettura complessa dei gesti terapeutici.
Nuovi malesseri si diffondono nelle nostre città , si fanno strada fuori e dentro noi stessi, alterano l’immagine della nostra corporeità  restituendoci un fantoccio, una caricatura virtuale, appesantita dalla tecnologia e spoglia di ogni trascendenza: per questo non ci specchiamo nelle tante minuziose e minacciose procedure analitiche che vorrebbero scandagliare le nostre membra senza trovare le corde misteriose che lo muovono.
Nella distorsione dell’immagine corporea trovano radici morbi insidiosi ed avvolgenti come anoressìa, bulimìa e depressione, e nei frantendimenti e le insipienze sul corpo e la sua idea si spendono le parole e gli sforzi terapeutici di genti di radici ed idiomi diversi, maldestramente affastellati nel Nuovo Mondo Globale.
Si va perdendo la misura ed il senso del rapporto col corpo e con ciò che ci appare fuori dal corpo, fallacemente estraneo, col limite che non vogliamo accettare, con la profonda e incoffessabile nostalgia di ciò che avremmo potuto diventare, nonostante tutto.
E proprio viaggiando idealmente nel tempo e nello spazio, aprendo alcune finestre virtuali sulle molteplici valenze culturali attribuite al”simulacro” corporeo da popoli e tradizioni distanti (ma non troppo lontani), che si arriva a percepire, in modo sufficientemente approssimato, la complessità di relazioni, il fluire dell’informazione tra i viventi e dentro i viventi, il filo di sapienza che ci allaccia al passato e, passando nella porta stretta di questo angusto presente, ci sospinge nel futuro.

Uno scisma alle radici dell’arte medica
Il soffio vitale o pneuma (che dà origine al Qi o “soffio” della Medicina Tradizionale Cinese, nel cui ideogramma sono presenti il vapore – nutrimento respiratorio – ed il riso – nutrimento digestivo) ha da sempre destato l’attenzione degli antichi, più del banale “burattino” del corpo senza vita.
Per gli Egizi, considerati privi di una vera e propria concezione anatomica (nonostante la profondità delle loro conoscenze mediche) ci raccontano nel Papiro Smith nel libro “Principio del sapere segreto del medico. La conoscenza del cammino del cuore, la conoscenza dello stesso cuore”: « Il medico misura il cuore valutando con la mano le pulsazioni. Ci sono vasi in tutte le membra. Ovunque metta le dita un medico, un prete di Sachmet, un esorcista, incontra sempre il cuore, perché i suoi vasi arrivano dappertutto. Il cuore è ciò che parla dai vasi di tutte le membra. (…) Ci sono 22 vasi nel cuore: sono essi che portano l’aria in tutte le parti del corpo.»
L’antica Medicina Tradizionale Mediterranea, come emerge dalla ricostruzione operata da L. Giannelli, collegata agli altri Grandi Sistemi Medici Tradizionali (Medicina Unani, Medicina Araba Tradizionale, Medicina Cinese,Medicina Tibetana, con analogie anche nella Medicina Ittita e nelle Medicine dei Nativi Americani) era fondata sulla dottrina delle Qualità

• caldo (espansivo e vivificante)

• umido

• secco

• freddo (addensante e terminale)

(che trovava corrispondenze nei venti, nelle fasi lunari, nel passare delle stagioni e delle ore del giorno) e sulla dottrina degli Elementi

• fuoco (dall’unione di calore e secchezza)

• aria

• acqua

• terra

che rappresentano le basi di quella che, declinata in vario modo, veniva chiamata dottrina umorale.

Derivati dalle qualità elementari, gli umori sono

• il flegma (umore infiammatorio, freddo ed umido, cui possiamo avvicinare i catarri)

• il sangue (caldo ed umido)

• la bile gialla (calda e secca)

• la bile nera (fredda e secca).

Dall’equilibrio fra gli umori, correlato a vari fattori (es. le stagioni dell’anno, le costellazioni celesti), dipende il temperamento della persona e l’equilibrio che determina la salute (eukrasìa) o lo squilibrio all’origine della malattìa (diskrasìa).
Tra i padri riconosciuti di questa visione dell’essere umano vi sono Ippocrate e Galeno, quest’ultimo tra i primi “esploratori” dell’anatomia umana (solitamente dedotta a partire da quella di scimmie antropomorfe).
All’interno del grande Corpus Hippocraticum, grande ed eterogenea raccolta (in buona parte perduta) di scritti di medicina fioriti attorno all’imponente figura del fondatore Ippocrate, spiccano quelli probabilmente più fedeli all’impostazione del maestro, della cosiddetta Scuola di Cos, orientata a conciliare l’osservazione con un modello teorico.
Di questa scuola, tra le più interessanti testimonianze ci vengono dal breve trattato per medici “itineranti” denominato “De aere, aquis locis”, nel quale il legame tra corpo ed ambiente viene considerato talmente stretto da considerarlo indispensabile per l’arte medica: senza un’adeguata conoscenza di fattori ambientali (venti, acque, clima) il medico non può conoscere predisposizioni, effettuare diagnosi o procedure terapeutiche.
Non solo l’organismo umano non è un semplice insieme di parti giustapposte ma il corpo stesso é semplice parte di un tutto e la terapia, qundi, deve conoscere e rispettare le leggi della natura.
In linea col maestro e, forse, preoccupato del significato che si andava costruendo sul corpo, lo stesso Galeno, nei capitoli 2 e 3 dei “Procedimenti Anatomici” stabilisce fra i suoi utilizzatori, oltre ai medicí, anche filosofi “puri” e teleologi (che se ne serviranno per dimostrare che la natura non fa nulla invano), per primo appellandosi, come Paracelso, ad una disciplina umana, la Filosofia, chiamata a cercare il senso autentico delle evidenze sperimentali.
A questa concezione olistica ippocratica si contrappose la Scuola Anatomica di Alessandria (III sec. a. C.) animata dalle figure di Erofilo ed Erasistrato, affascinati dall’arte della dissezione (e primi compilatori di opere di anatomia descrittiva).
Questa antica frattura del sapere medico, giocata sul terreno sofferente del malato, è stata gravida di conseguenze e ancor oggi stenta a ricomporsi.
In Francia, nel periodo successivo al secondo dopoguerra, lo schema si ripete a un livello differente, portando per reazione alla nascita della fitoaromaterapia clinica.
Un oscuro, ma, all’epoca, assai influente membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione Francese, chiamato Bouchard, fu un solerte oppositore delle “scienze accessorie” come la fitoterapìa ed anche un pessimo maestro che esibiva grande altezzosità e cinismo al capezzale dei pazienti presso i quali spendeva “l’inutile quarto d’ora della terapia”.
Louis-Ferdinand Céline, nel suo romanzo “La morte a credito” (forse autobiografico, visto che il suo mestiere era quello di medico), ci testimonia dall’interno il cinismo di quel modo di intendere la medicina ed il corpo, meglio di ogni descrizione o analisi storiografica.
La nuova fitoterapìa clinica francese nacque proprio in risposta al “bouchardismo”, a questa medicina sideralmente lontana dal corpo del malato.

Ricomporre l’unità: medicina, alchimia e magia
Un frammento appartenente agli Oracoli Caldaici ci ammonisce a lanciare oltre lo sguardo:”Non porre mente ai confini della terra: non nasce in essa l’albero della verità .E non calcolare la misura del sole a furia di tavole: per eterno volere del padre esso si volge, non per te.Lascia perdere il ronzio della luna: è per opera della necessità che corre sempre. La processione degli astri non è stata generata per te. L’ampia palmatura delle ali degli uccelli nel cielo non è mai veritiera, e non lo sono le sezioni di vittime e di intestini. Tutti questi non sono che giochi e fondamenti di una frode venale. Fuggili, se vuoi dischiuderti le porte del giardino sacro della pietà , dove virtù, sapienza, ordine armonico si adunano.”
Eppure nell’antica Roma Caldeo divenne sinonimo di indovino o astrologo, dato che queste “professioni” riguardavano prevalentemente persone di origine orientale; sarebbe sbagliato intendere l’astrologia antica col riferimento caricaturale rappresentato dagli odierni oroscopi dei rotocalchi scandalistici, ma con la prospettiva “alta” della scuola di Raffaello che, nella volta della sala della Segnatura, rappresenta questa disciplina, tra la Poesia e la Filosofia, come conoscenza universale dell’uomo (avente profondi legami con l’ars medica).
La questione dei rapporti profondi tra il corpo e il cielo è assai complicata e comprende anche la geografia degli antichi orti botanici e la stessa classificazione delle piante officinali.
Nella melothesia o medicina astrologica venivano postulate corrispondenze tra le parti del corpo e la volta celeste, per cui vi sarebbero corrispondenze (o, per alcuni, dirette influenze) tra squilibri dell’universo e squilibri organici all’origine delle malattie; solo la conoscenza ed il ritorno all’Ordine Cosmico può ricondurre alla salute; in questo contesto venivano poi prescritti i vari rimedi vegetali, minerali o animali e le procedure terapeutiche (es. salassi, digiuni) ritenute più idonee.
L’uomo, “simia Dei” (= scimmia di Dio), lungi dall’essere spettatore passivo, si ricollega al gesto creativo di Dio ed esso stesso, come creazione naturale, concorre all’armonia del Tutto di cui fa parte. In un passo dell’Asclepius, attribuito ad Ermete Trismegisto, l’uomo è definito “magnum miraculum” per le sue capacità

• di contemplare il cielo

• di conoscere il divino

• di praticare le arti dedalee (ovvero la costruzione di statue animate dotate di poteri magici).

Nell’astrologia “geografica”, sviluppatasi tra il III ed il II sec. a.C. (grazie alla filosofia di Aristotele ed all’astronomia di Tolomeo), si cercano nel microcosmo corporeo le corrispondenze col Macrocosmo Celeste, tanto che il “pneuma” divenne, per lo stoicismo, la “sostanza sottile” che lega la ragione dell’uomo alla Ragione Universale del Cosmo in un profondo rapporto di “sìmpathèia” e necessità; venti ed esalazioni di piogge e maree forniscono il nutrimento agli elementi della volta celeste che riversano sull’umanità in forma di energia positiva o negativa.
In questo senso (e non come banale illusione ottica) va interpretata anche la teoria della signatura di Paracelso, che stabiliva relazioni analogiche tra il rimedio terapeutico e l’organo o la malattia da trattare, secondo una “legge di partecipazione” che fu poi elegantemente approfondita dai lavori di Levi-Bruhl in campo antropologico.
Il corpo puó dunque divenire luogo e specchio di altri luoghi, il suo ordine (o disordine) e benessere (o malessere) segno e semplice “sintomo” di equilibri (o squilibri) superiori, oppure, in un orizzonte più limitato, una semplice porzione chiusa dello spazio da passare al vaglio del setaccio scientifico.
L’arte ha saputo spiegare, talvolta, meglio della scienza la realtà dell’uomo, basti pensare all’opera di Arcimboldo in cui il corpo è parte del giardino della natura e del mutare delle stagioni.
Probabilmente sorta sui resti sui resti di un precedente tempio dedicato ad Iside la chiesa di Santa Maria della Pietà (più nota col nome di Cappella Sansevero) è un grandioso “trattato” sul corpo e i suoi entusiasmanti misteri.
Si racconta che la chiesa, popolarmente nota anche col termine di “Pietatella”, sorse nel 1593 per volere di Giovan Francesco Paolo di Sangro, forse a seguito di una grazia ricevuta, ma si sviluppò in forma più compiuta dal 1744 in poi grazie al principe di Sansevero Raimondo di Sangro, mescolando la tradizione familiare con motivi e sensibilità massoniche, alchemiche e filosofico-morali (tanto da provocare in molti contemporanei l’accusa di idolatria).
L’edificio, collegato all’antistante palazzo Sansevero, presenta una struttura superiore, mono-navata e con 8 cappelle laterali disposte sui lati, un pavimento con un mosaico bicromo (ottenuto, come molti altri manufatti presenti nella costruzione, in modo originale e misterioso) raffigurante un labirinto, ed un ambiente inferiore o “cavea sotterranea”.
In questo prezioso gíoiello del patrimonio artistico italiano spiccano opere come il Cristo velato del Sanmartino, potente rappresentazione di un corpo sofferente e, paradossalmente, reso ancor più nudo dal lenzuolo che lo ricopre, come a ricordarci il drammatico limite che è destinato alla conoscenza umana della sua fragile realtà terrena. Silenziose ancelle a cornice di questo monumento sono le 10 statue laterali che rappresentano una seríe di virtù umane (come il dominio di sé stessi ed il disinganno), quasi ideali accompagnatrici di un viaggio, a un tempo razionale e spirituale, nella passione di quel corpo abbandonato.
A questa immagine di bellezza inarrivabile fanno da tragico contrappunto, nella cavea sotterranea, le crude e minuziose macchine anatomiche, avanzi di “procedimenti alchemici” attuati su ignoti sventurati, che evidenziano la rete cardiocircolatoria in eccezionale stato di conservazione.
Alla luce fosca delle macchine anatomiche il Cristo velato è l’estremo testamento spirituale di uno scienziato giunto alla fine di una parabola di conoscenza destinata, forse, in partenza, a non avere fortuna.
Anche l’anatomia moderna rischia di rimanere prigioniera del Labirinto, di tortuosi percorsi di evidenza che non ci mostrano alcuna certezza?
Un dubbio simile forse non appartiene solo a chi vi scrive.

Avvicinandosi temerariamente a possibili conclusioni
Riportandosi all’immagine iniziale del medico itinerante è forse viaggiando, accettando l’avventura rischiosa della terapia e della guarigione, capaci di autentico ascolto, possiamo sperare di ritrovare il Luogo dal quale siamo partiti.
Paracelso ci racconta il suo itinerario professionale e umano, il suo modo di intendere la ricerca e l’arte medica: “Peregrinai più avanti, verso la Gromazia (?) e Lisbona, attraverso la Spagna, l’Inghilterra e la Marca, la Prussia, la Lituania, la Polonia, l’Ungheria, la Valacchia, la Transalvania, i Carpazi, il Windisch (Alto Adige) e altri paesi che tralascio di nominare, e in tutte le terre e in tutti i paesi ho continuato con diligenza e cura a chiedere degli artefici sicuri, veraci e sperimentati nell’arte della medicina; e non solo dei dottori, ma anche dei barbieri, dei bagnini, dei cerusici sapienti, delle donnicciole, dei negromanti, degli alchimisti, nei conventi, presso i nobili e presso i villani, presso I sapienti e presso i semplici di spirito; eppure non ho potuto conoscere fino in fondo la certezza di qualsivoglia malattia. Ed ho lungamente meditato che la medicina è un’arte malsicura, che non sta bene usare, nè è permesso impiegarla a caso, si da risanarne uno e rovinare dieci.”
Di fronte a questo umile atteggiamento di ricerca sta un approccio negativo, permeato di ambizioni insane, di secondi fini che non aiutano l’indagine scientifica.
Da “Papalagi” discorsi del capo Tuiavi di Tiavea (isole Samoa) un breve passo che ci riporta, lontano nel tempo e nello spazio, all’ammonimento caldeo citato all’inizio.
Quando si domanda ad un Papalagi (= uomo bianco “civilizzato”) «Perché pensi tanto?» lui risponde «Perché non voglio restare stupido».
Io credo però che questo sia solo un pretesto e che il Papalagi segua un cattivo impulso; che il vero scopo del suo pensare sia di arrivare a capire ciò che sta dietro le forze del Grande Spirito. Un fare che egli stesso definisce con l’altisonante parola «conoscenza». Conoscenza vuol dire avere una cosa così vicino agli occhi che ci si batte il naso. Questo battere il naso nelle cose e frugarci dentro è una brutta e deprecabile voglia del Papalagi. Afferra la scolopendra, la trafigge con una minutissima lancia, le stacca una zampa: «che aspetto ha una zampa staccata in quel modo dal corpo? Come era attaccata?» Taglia la zampa, la apre per misurarne la grandezza. Questo è importante, questo è essenziale. Stacca una scheggia dalla zampa, piccola quanto un granello di sabbia, e la mette sotto un lungo tubo che ha una forza segreta e rende gli occhi tanto più acuti. Con questo occhio magico il Papalagi studia e controlla ogni cosa, le tue lacrime, un pezzetto della tua pelle, un capello, tutto. Spezzetta tutte le cose fino a quando arriva al punto in cui non c’ê più nulla da tagliare e da dividere. Sebbene questo punto sia il più piccolo, di solito è più importante, perché è un accesso alla grande conoscenza che soltanto il Grande Spirito possiede.
Questo accesso non è aperto al Papalagi e anche i suoi occhi magici più acuti non hanno ancora potuto guardarvi dentro. Nessuno ê mai salito più alto di quanto lo fosse il tronco della palma che le sue gambe stringevano. Giunto sulla cima della pianta, gli veniva a mancare il tronco per salire più su. Il Grande Spirito non ama la curiosità degli uomini, per questo ha teso sopra tutte le cose grandi liane che sono senza principio e senza fine.

Riflettere con umiltà sul corpo e i suoi significati ci restituirà la misura autentica della palma sulla quale ci siamo arrampicati?C’è ancora bisogno di una medicina che sappia guardare il corpo senza semplicemente soffermarsi sulla sua parvenza, accettando la scomoda e infinita sfida delle “grandi liane”?
A ciascuno trovare le sue risposte.

Claudio Biagi
Laureato in Chimica e Tecnologia Farmaceutica, esperto di Nutriceutica (integrazione nutrizionale fitoterapica), Farmacista, Docente di Chimica, Consulente Scientifico, Accademico del Nobile Collegio Chimico farmaceutico, Docente di Fitoterapia presso SMB Italia
Direttore Didattico del Campus Laboratori Borri
doctorbiagi@gmail.com

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Claudio Biagi

Laureato in Chimica e Tecnologia Farmaceutica, esperto di Nutraceutica (integrazione nutrizionale fitoterapica), Farmacista, Docente di Chimica, Consulente Scientifico, Accademico del Nobile Collegio Chimico Farmaceutico Universitas Aromatariorum Urbis, formulatore di importanti prodotti erboristici, Docente di Fitoterapia presso SMB Italia. Autore di libri e pubblicazioni scientifiche. Docente Università Unicusano. Direttore Didattico di Campus Framens, Primaria Scuola di Naturopatia