L’insegnamento di Leonardo: la ricerca della sintesi (parte 1)
Nell’accostarsi per la prima volta a Leonardo da Vinci ci si sente smarriti nel groviglio di materiale apparentemente «grezzo e sbriciolato»[1].
Sperimentazioni, scoperte e riflessioni sono disseminate qua e là in preziosi appunti e in impareggiabili disegni. Sono molti i critici che hanno ravvisato nella frammentarietà e nell’apparente disordine del suo lavoro, discontinuità e inettitudine al compimento. Ancor prima di Marinoni, l’Olschki rimarcò la mancanza di una «consapevolezza metodologica» che ridusse la scienza di Leonardo a «una sorta di caos di dati e di fantasie minuziosamente annotati»[2]. È indubbio che questa matassa apparentemente disordinata celi delle facoltà di osservazione e di sintesi difficilmente percepibili dalla nostra mente frenata da stereotipi e preconcetti dai quali faticosamente tenta ogni giorno di liberarsi. Tutte le facoltà dell’intelletto di Leonardo, al contrario, sono ampiamente sviluppate. E proprio questo, a detta del critico francese Valery, favorirebbe quell’incomprensione della sua opera che presenta, in realtà, una continuità che si sottrae alla nostra conoscenza.
La variegata biblioteca leonardiana testimonia l’illimitata ampiezza del suo pensiero, la complessità dei suoi interessi e delle sue attitudini: dalle scienze esatte ai trattati di chirurgia e anatomia, dai testi di arte militare e di architettura a quelli di pittura e di religione, dalla biologia alla fisica meccanica, fino alla matematica e alla geometria. In questo smisurato materiale di indizi – dell’Autore e dei critici –, lacune e ostacoli si intrecciano in un groviglio difficile da dipanare richiedendo l’elaborazione di un efficace metodo di interpretazione che deve essere continuamente ridiscussa, in accordo con la irripetibile specificità dell’Autore.
Non è certo questa la sede per sondare e analizzare i preziosi lavori di Leonardo vorrei, tuttavia, soffermarmi sulla originalità del suo pensiero, sulla sua creatività nel percepire l’Universo, su quella facoltà di osservazione e di sintesi che potremmo definire come il suo modus operandi e nel quale ravviso la scienza umanistica e filosofica alla base del lavoro del Naturopata. Quest’ultimo, infatti, nel suo percorso ‘apparentemente frammentario’ con il cliente/paziente, sonda e crea le relazioni che sfuggono alla legge di continuità permettendo quella creazione, come direbbe Henry James, di una ragnatela di sottilissimi fili di seta, sospesa nella stanza della coscienza, che cattura nel suo tessuto ogni particella portata dall’aria.
Leonardo più di altri e fin da giovane, è in grado di offrirci una visione sistemica della realtà, di comprendere che ogni fenomeno è legato da molteplici interrelazioni da osservare e sperimentare. Diversi aspetti apparvero a lui armoniosamente componibili in una sintesi (natura, architettura, anatomia, idraulica) spiegata secondo le leggi della Fisica e della Matematica che tutt’oggi risulta a noi poco comprensibile. Egli indaga il mondo e la realtà in ogni suo particolare, il suo sguardo è rivolto all’ ‘aperto’, perché quel che il giovane Leonardo discopre e coglie, mantenendola intatta per tutto l’arco della vita, è quella capacità di espansione della mente e della fantasia verso un’infinità che impedisce che abbiano fine le cose, che pur si stabilizzano in uno spazio e in un luogo. Leonardo sembra vivere in armonia con quella attitudine al movimento che caratterizza il respiro dell’intero Universo. L’apertura all’infinità dell’esistenza dà luogo a intuizioni che mai si limitano ad essere lampi isolati e circoscritti, ma riflessioni sempre aperte a nuove soluzioni e a ininterrotte analogie che gli permettono, anche a distanza di tempo, di relazionare aspetti della realtà apparentemente distanti e inconciliabili.
Dunque, inoltrandoci nel pensiero di Leonardo Da Vinci, appare chiaro come egli ci suggerisca una visione della vita e dell’Universo al quale potremmo tutti ispirarci, pur consapevoli che tale modus vivendi necessita di impegno, volontà e costanza.
Egli vede il “tutto”, e vede sé nel tutto. Non gli sta “di fronte”. L’aria è piena di infinite similitudini delle cose – scrive – tutte si rappresentano in tutte, e tutte in una, e tutte in ciascuna[3].
Un’immagine metafisica, come la definisce Jaspers, che «non è un’astrazione, né un pensiero, né qualcosa che stia a fianco o al di sopra di altre cose. Esso è realmente il tutto, ed esiste, in concretezza sensuale e in esperienza corporea […] è l’immagine del mondo in cui tutto è infinito e il molteplice non è soltanto pensato come un tutto (che sarebbe inefficace), bensì è anche, come un tutto, vissuto intimamente e sperimentato»[4]. Nel suo percorso apparentemente frammentario, aspira strenuamente al compimento. A quella unità che renda davvero possibile la perfezione e faciliti il processo di conoscenza: «Ogni parte ha inclinazion di ricongiungersi al suo tutto per fuggire dalla sua imperfezione»[5]. E così anch’egli fugge dalle proprie imperfezioni anelando quasi ostinatamente alla perfezione di se stesso e della sua opera, sia essa pittorica, scientifica o anatomica[6]. Ma il perfetto, come scrive Valery, impone il non compimento: «È perfetto ciò che non si può finire e che sfugge allo spirito nello stesso tempo in cui l’attira»[7].
Se da un lato ciò accresce le sue abilità manuali e capacità intellettuali, dall’altro genera una incontentabilità di fondo verso il proprio operato che lo spinge a un ricambio continuo di dubbi e difficoltà, a lunghe pause riflessive allontanandolo – e qui diamo ragione a Marinoni – dall’agognato compimento:
Soleva anco spesso, et io più volte l’ho veduto e considerato, andare la matina a buon ’hora a montar su ’l ponte, perché il Cenacolo è alquanto da terra alto: soleva (dico), dal nascente Sole sino all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordandosi il mangiare et il bere, di contìnovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì, che non v’averebbe messo mano, e tuttavia dimorava talhora una o due ore al giorno e solamente contemplava, considerava, et essaminando tra sé, le sue figure giudicava[8].
Ma non si tratta, come apparentemente potrebbe sembrare, di timorosa esitazione bensì di attenta pausa riflessiva. Un processo interno, quel processo indispensabile a chiunque voglia accostarsi all’altro e a se stesso; un processo che precede e dirige il movimento esterno facendo volgere il suo sguardo verso nuovi scenari osservati, sperimentati e vissuti sempre con sorprendente meraviglia e smaniosa curiosità.
Maria Laura Gargiulo
[1] Augusto Marinoni, Leonardo. Scritti letterari. Scritti artistici e tecnici, a cura di Augusto Marinoni, Milano, Fabbri Editore, 2006, p. 44, e sempre in Augusto Marinoni, Premessa a Leonardo. Scritti letterari. Scritti artistici e tecnici, a cura di Augusto Marinoni, Milano, Fabbri Editore, 2006, p. 7.
[2] L. Olschki, Istorija nauc̆noj literatury na novych jazykach. Tom pervyi [Storia della letteratura scientifica nelle nuove lingue. Volume primo], Moskva-Leningrad 1993, pp. 168-202. Citato in Leonid M. Batkin, Leonardo da Vinci, Roma-Bari, Editori Laterza, 1988, p. 9. [edizione originale, Leonardo da Vinc̆i, Moskva 1988].
[3] Codice Atlantico, 138 r.b, in Leonardo, Scritti scelti, a cura di Anna Maria Brizio, Torino, UTET, 1980, p. 161.
[4] K. Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, trad. it. di V. Loriga, Roma 1950, p. 219.
[5] Cod. Atlantico, 59 r. b.
[6] Il Vasari scrive come la «cagione» del portare a completamento l’opera [il riferimento è al Cavallo] Leonardo era impedito dal «[…] cercare sempre eccellenza sopra eccellenza e perfezzione sopra perfezzione», G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e archi tettori, vol. 3, parte terza, Milano 1963, p. 24.
[7] P.Valéry, Cahiers, tome II, Paris, Gallimard, 1974, p. 975.
[8] Matteo Bandello, Novelle, 1497, tratto dalla dedica della novella LVIII della parte I, diretta a Ginevra Rangona Gonzaga.