La Filosofia del Benessere – parte II
Non si vive per mangiare, si mangia per vivere.
Oggi nel mondo occidentale si mangia troppo. E male.
La pubblicità non ci aiuta, anche se ci offre diete a buon mercato, sulla cui efficacia e sulla cui sicurezza non sempre possiamo essere certi.
C’è una sorta di aberrazione alimentare che produce un continuo aumento di obesi a tutte le latitudini, tanto da indurre il timore che gli uomini possano tornare ad essere – stando almeno a quel che dice Aristofane nel Simposio di Platone – ciò che erano alle origini, cioè delle palle ermafrodite che non stavano in piedi e rotolavano invece di camminare.
Finché, a causa della loro insaziabilità, che le portò persino a scalare il cielo, Giove le divise in due, col risultato che ciascuna metà cercava l’altra, per riacquistare l’unità perduta. E fu così che nacque l’amore.
Ma questa è una leggenda. Restiamo invece coi piedi per terra e domandiamoci: “Perché mangiare tanto? E’ proprio necessario?”
Spesso, dicono gli psicanalisti (che sono sempre pronti a infilare il sesso dappertutto), si mangia per colmare un vuoto interiore, e la tendenza ad ingrassare può essere vista come la metafora di bisogni primordiali che non vengono più soddisfatti.
E allora parliamo di questo vuoto interiore, ma non nel senso psicologico, che sarebbe un discorso noioso e ci porterebbe fuori strada, bensì nel senso di digiuno.
Nella filosofia del benessere, infatti, può ben rientrare il digiuno, quando sia praticato cum grano salis, non avventatamente.
La nutrizione è un fatto culturale, una scelta, una filosofia di vita.
Tutti ormai conosciamo il ramadan, il nono mese del calendario islamico, ritenuto sacro perché è il periodo dell’anno in cui fu rivelato agli uomini il Corano, quale guida e prova inconfutabile di retta direzione e salvezza (Sura II, v. 185): un periodo di purificazione non solo materiale ma anche spirituale. Del digiuno parlava anche la Bibbia, che lo riteneva uno strumento per la ricerca e l’esperienza del divino (non il “patetico bagaglio del povero, più che il traboccante tesoro del ricco”, poiché Dio lo si può raggiungere anche senza la preghiera).
Io, per esempio, ho sempre avuto, fin da bambino, un rapporto conflittuale col cibo (per un bisogno, come scoprii più tardi, di purezza interiore).
Mi volevo pulito anche nelle budella: mi sembrava che quel materiale estraneo, quell’ingombro, quel peso putrido che mi portavo dentro m’inquinasse e mi offuscasse persino il cervello, impedendomi di realizzare quella condizione di nudità esistenziale a cui ardentemente anelavo. L’apparato digerente era per me l’immagine della tetra voragine infernale, coi suoi dannati giri, i suoi meandri, impregnati di fetidi vapori e pieni di travagli e di lamenti.
Ebbene, quello stato di vuoto interiore, quando mi accadeva di realizzarlo, operava in me una sorta di rinascita immunitaria.
Niente ancora sapevo dei mistici poteri del digiuno, capace di mettere l’uomo in contatto con la divinità o di schiudergli esperienze fuori del comune, ma chi può negare che quella mia avversione per il cibo affondasse le sue radici in quell’estremo bisogno di cogliere il numinoso, il divino ch’era dentro di me, o quantomeno di raggiungere la mia autentica realtà?
Del resto il digiuno fu introdotto fra le pratiche religiose fin dai tempi più antichi: gli Egiziani digiunavano in onore di Iside, gli Ebrei per accattivarsi Geova durante le calamità politiche, i Greci per la celebrazione dei Misteri di Eleusi e di Cibele, i Romani per Cerere.
Il digiuno era praticato per i più diversi motivi: quale mezzo d’identificazione col defunto (consuetudine ancora viva nel nostro meridione), quale tecnica di autocolpevolizzazione e di liberazione da una colpa, per porre fine alla siccità (conseguenza di un castigo divino), quale ristabilimento di un ordine morale, di equilibrio e di armonia con la divinità (tale è il caso di Adamo dopo il peccato, e a ciò mirano la Quaresima e il Kippur), quale simbolico annientamento dell’universo e del male cosmico (come insegnano i pitagorici e Buddha), quale tecnica di potenziamento di facoltà psicofisiche (Mosè ed Abramo digiunarono quaranta giorni per poter avere una visione, e altrettanti lo stesso Gesù).
Io non ambivo a tanto, certo è che a stomaco vuoto la mia vista si acutizzava, quella nebbia invisibile che avevo dentro la testa e che mi faceva vedere le cose come sfumate scompariva e l’odorato si affinava: è noto infatti che le informazioni raccolte dagli altri sensi, una volta raggiunta la corteccia, devono essere prima analizzate per poter suscitare un’emozione, mentre questa con l’odore insorge quasi simultaneamente.
Il digiuno mi è stato molto utile, come la meditazione.
Le cose bisogna provarle per crederci, poi, una volta appurato che il meccanismo funziona, puoi anche permetterti qualche libertà, sempre, però, con moderazione: est modus in rebus, diceva Orazio, il quale, pur definendosi scherzosamente un porcellino del gregge di Epicuro, sapeva essere parco nel mangiare e perlopiù, come scrive egli stesso, consumava un pasto frugale, a base di farro, ceci, lenticchie, porri e frittelline.
Insomma, quello che volevo dire, in definitiva, è che bisogna vivere in armonia con la natura.
Ecco alcuni consigli di Pitagora, tratti dalle Metamorfosi di Ovidio (leggibili quanto prima in una edizione della Newton Compton):
Non contagiate i vostri corpi, o uomini, con pietanze sacrileghe! Ci sono i cereali, i frutti che vi porgono col loro peso i rami, e sulle viti grappoli d’uva turgidi. Ci sono saporite verdure ed altre ancora che si possono rendere più tenere e più buone cocendole…
Solo le bestie placano la fame con la carne, e non tutte: d’erbe vivono i cavalli, le pecore, gli armenti.
Sono le bestie d’indole selvatica e cattiva a cibarsi delle carni sanguinolente.
Ah, che delitto enorme alimentare visceri con visceri ed ingrassare un corpo introducendovi un altro corpo!
Eppure quell’età, quella beata età che noi chiamiamo “età dell’oro” era contenta e paga dei frutti delle piante e delle erbe che spuntano dal suolo, e non lordava di sangue la sua bocca ogni mortale…
E fu così che gli uomini – dice sempre Pitagora – cominciarono a scannarsi fra di loro.
Anche se Caino, che fu il primo omicida, uccise Abele per un altro motivo, in cui, però, la carne degli animali aveva un ruolo primario.
Sembra infatti che Caino fosse invidioso del fratello perché sacrificava a Dio delle carni grasse e sanguinolente, mentre lui gli offriva solo cesti di frutta. Ma anche Caino amava Dio, a suo modo, ma lo amava, altrimenti che motivo avrebbe avuto di arrabbiarsi?
D’accordo, i doni e i sacrifici offerti a Dio da Abele erano molto più ricchi dei suoi, ma che vuol dire?
È pensabile che Dio potesse offendersi perché invece di offrigli carni grasse gli offriva cesti di frutta?
È pensabile che Dio potesse pensare che Abele lo amava di più perché le sue offerte erano più ricche di quelle di Caino?
E aveva bisogno di vedere le offerte e di sentirne l’odore per sapere chi dei due lo amava di più?
Ma non usciamo fuori dal seminato: il male non rientra nella nostra filosofia.
Prof. Mario Scaffidi Abbate
http://www.marioscaffidiabbate.com