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Evoluzione genetica tra competizione e altruismo

Sebbene le società occidentali abbiano fondato il loro successo economico e la loro pervasività nelle idee e nei costumi dell’intero pianeta sull’individualismo e sul particolarismo non sono rari i casi a cui assistiamo nel nostro quotidiano a piccoli e grandi episodi in cui persone comuni, lontane dagli occhi della ribalta, compiono atti di generosità ed altruismo, spesso incuranti dei rischi e dei pericoli insiti nei loro gesti. Questi piccoli grandi eroi del quotidiano, intervistati successivamente alla loro azione, dichiarano quasi sempre di aver ubbidito al proprio istinto naturale.

Ricerche più specifiche ed approfondite hanno appurato che le persone volte tendenzialmente a compiere atti altruistici provengono da infanzie difficili e spesso da situazioni affettive carenti.

La nostra missione è forse, allora, quella di dare ciò che non abbiamo ricevuto?

Secondo la psicologia “classica” è vero esattamente il contrario, per cui la mancanza di affetto ricevuto da un bambino si riverbererà drammaticamente in una distorsione della sua personalità da adulto, con tendenze eccessive all’individualismo ed all’egocentrismo. In effetti la psicanalisi riporta innumerevoli casi di disagi psichici provocati dalla mancanza di affetto in età infantile per cui l ’affetto ricevuto sembra essere veramente un buon viatico per sviluppare una personalità integrata nel proprio contesto sociale e decisamente più altruista.

Ma quello che sembra essere decisivo in questo senso è il modo con cui l’individuo reagisce alle sofferenze che la carenza di affetto gli ha necessariamente inflitto.

Possiamo dunque affermare ragionevolmente che per far propria una precisa qualità dell’esistenza sia necessaria la presa di coscienza della sua essenzialità, consapevolezza che si può raggiungere anche attraverso l’esperienza della sua privazione.

Diverso è il ruolo giocato dall’educazione, intesa, come indica l’etimologia, nel suo vero significato di “condurre fuori“ ciò che veramente sentiamo e che corrisponde alle nostre aspirazioni, ottenuto tramite indirizzi, consigli, riflessioni da parte di chi è in grado di svolgere il ruolo di “educatore”. Crescere in un ambiente che esprime competitività, egoismo, disonestà e pregiudizio tende a generare personalità che si esprimono allo stesso modo.

La teoria, molto seguita in diversi ambiti sociologici, cosiddetta dello scambio sociale, arriva a sostenere che le persone altruiste valutano che i benefici sono superiori ai rischi del loro comportamento. In tal senso un comportamento altruista risponderebbe ad una propria convenienza[1].

Ma a questo punto è logico chiedersi: cosa è che spinge la persona all’altruismo? È l’impulso innato verso la sopravvivenza della specie, come ha teorizzato il biologo R. Dawkins?[2]

Secondo i ricercatori che hanno esaminato i risultati di molti esperimenti in diversi tipi di piccole comunità dislocate in tutto il mondo, l’impulso umano all’equità è una questione morale, sviluppata nei gruppi sociali per contrastare la dominanza dei più forti: in questo modo alimenta spontaneamente la propensione verso la cooperazione reciproca. Il senso di giustizia all’interno delle società in questo modo evolve come legame fondamentale che rende uniti i membri e di conseguenza più coesa la società stessa.

Una spiegazione del “come “opera questo principio ci viene da una fonte inaspettata: la teoria dei giochi, a riprova del fatto che le dinamiche interpersonali sono le stesse qualunque sia il tipo di relazione osservata. Ricordiamo brevemente che la teoria dei giochi è stata elaborata per definire le migliori strategie possibili in un contesto di risorse limitate in cui la competizione è necessaria per assicurarsi quelle migliori. Secondo un importante teorema, elaborato dal premio Nobel J. Nash[3], ciascun giocatore prende la decisione migliore indipendentemente dagli altri ma così facendo si raggiunge facilmente un punto di equilibrio in cui nessuno può migliorare la propria posizione date le scelte che gli altri hanno fatto. A quel punto è solo la cooperazione di tutti i giocatori a permettere un utilizzo soddisfacente delle risorse e dunque il superamento dell’impasse.

Come ha ben sintetizzato il concetto l’autore della teoria per cambiare, occorre agire insieme.

La teoria dei giochi è attualmente utilizzata da sociologi per predire comportamenti più probabili nelle scienze sociali e dai biologi evoluzionisti per determinare come animali o gruppi di persone reagiscono in situazioni complesse. Molti studi hanno dato risultati stupefacenti.

In particolare l’altruismo, e questo aspetto è veramente inaspettato visti in costi sul piano personale che questo atteggiamento spesso implica, tende a generare una vita più lunga, come rilevato in uno studio durato più di settant’anni svolto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Harvard[4].

Altrettanto significativo è il sentimento di reazione che possiamo nei confronti dei membri che non cooperano ma che tendono a avere un atteggiamento egoistico volto ad assicurare il maggior vantaggio per sé stessi. In questi casi il senso di equità che emerge nel resto del gruppo fa sì che l’empatia verso gli altri lasci il posto ad un forte senso di rivalsa che arriva al desiderio di punizione verso chi dimostra tale mancanza di cooperazione. L’avversione verso le ingiustizie è in grado di distruggere il senso di coesione anche nei gruppi più stabili e cooperativi, come dimostra un accurato ed approfondito studio condotto dai ricercatori Fehr e Schmidt. [5] In ultima analisi possiamo affermare che è la reciprocità del legame il cardine di una relazione vantaggiosa, in grado di generare armonia ed equilibrio fecondo e costruttivo tra i componenti.

In un altro articolo pubblicato da alcuni ricercatori dell’Università di Princeton[6], sono stati riportati i risultati di uno studio effettuato mediante tecniche di Risonanza magnetica funzionale sulle aree cerebrali che si attivano nei soggetti quando vedono infliggere male agli altri. Si è osservato che i circuiti neurali che operano in questi casi sono gli stessi di quelli che agiscono quando alle madri vengono mostrate le foto dei loro piccoli: si reagisce con il desiderio di connettersi con l’altro per prendersene cura, anche se è un estraneo: questo bisogno sembra dunque impresso nella nostra biologia di base.

Tornando alle forme empatiche nelle dinamiche di gruppo, l’ipotesi più suggestiva per la giustificazione delle reazioni altruistiche viene dalle neuroscienze. Precisamente ad attivare il nostro senso di partecipazione e cooperazione ai bisogni dell’altro sarebbero i nostri “neuroni specchio” che ci fanno assumere dall’interno la prospettiva dell’altro.

Entriamo così in uno stato di unità, uscendo dalla nostra individualità per entrare in uno spazio omnicomprensivo, potremo dire “olistico”, in completa armonia con la Natura.

Prof. Luciano D’Abramo


[1] Si veda per approfondimenti Homans, George C. (1958). Social Behavior as Exchange. American Journal of Sociology, 63, 597-606

[2]      Si veda, a questo proposito, il noto libro di R. Dawkins “Il gene egoista” – Bologna, Zanichelli 1982

[3]      John Forbes Nash, è stato un matematico ed economista statunitense, premio Nobel per l’economia nel 1994

[4]      Per approfondimenti su queste ricerche si veda il libro “The Bond-il legame quantico” di L.McTaggart ED. Macro Edizioni- Cesena 2011

[5]      Si veda l’articolo “A theory of Fairness,Competition and Cooperation”- Journal of Economics114(1999)

[6]      J. Greene  e altri, “ An fMRI investigation of emotional engagement in moral  judgment”- Science 293, n° 5537(2001)

 

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Luciano D'Abramo

Laureato in Fisica con lode all’ Università “La Sapienza” di Roma nel 1974, ha svolto per molti anni la sua attività professionale nell’ambito della progettazione e realizzazione di grandi Sistemi Informativi, principalmente per Enti pubblici quali la Ragioneria Generale dello Stato ed il Ministero dei Beni Culturali. Particolarmente interessato, sin dall’età giovanile, alla ricerca di una possibile sintesi tra le varie discipline scientifiche, oggi ancora troppo frammentate, ha pubblicato nel 1998 il libro “Fisica e Psiche”, trovando possibili collegamenti ed analogie tra le relazioni interpersonali e le leggi della fisica. Dal 2002 svolge interamente la sua attività professionale alla progettazione ed alla erogazione di corsi presso scuole ed istituti superiori ed universitari su materie scientifiche. Fa parte, sin dalla sua costituzione del corpo docenti e del Comitato Scientifico della Scuola di Naturopatia Borri ora Campus FRAMENS, per la quale svolge seminari e corsi di Biofisica, con particolare riferimento ad argomenti di ricerca di frontiera sulle leggi e le teorie della Fisica applicate ai sistemi viventi, riconducibili alle tecniche ed alle metodiche della medicina naturale.