Il futuro della medicina in un nuovo rapporto Medico/Paziente
In questo articolo vogliamo portare ad una maggiore diffusione quello che secondo una recente corrente di pensiero filosofico prima che scientifico, in un connubio ormai frequente nella nuova branca delle neuroscienze, è l’ attuale “pensiero debole della medicina”, identificato come causa principale della progressiva sfiducia che le persone nutrono verso la medicina ufficiale.
Questa realtà che sta emergendo è in netta antitesi con i toni trionfalistici della scienza e, soprattutto, della tecnologia che la sta decisamente oscurando con promesse di cure mirabolanti, guarigioni straordinarie, terapie universali in grado di “combattere” e “vincere”, termini che sono perfettamente adeguati al clima di sfida continuo che evocano, qualsiasi malattia.
Quanto la definizione di salute, data dall’OMS nel lontano 1948, che recita : “stato di completo benessere, fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia “si situi allo stato attuale ad una distanza abissale dalla nostra percezione, è di una evidenza incontrovertibile.
Il “pensiero debole della medicina” parte dal deteriorarsi del rapporto medico-paziente che riverbera inevitabilmente e in forma esacerbata, vista la sensibilità al tema della salute, la precarietà di processi empatici riscontrati nelle relazioni sociali proiettandola nel rapporto tra domanda e offerta di salute, per dirla in maniera più pragmatica.
E’ probabile che le grandi e crescenti difficoltà della crisi di questo rapporto non siano tanto dovute alla invasione delle tecnologie avanzate nella diagnosi e terapia, quanto al progressivo attenuarsi del rapporto di reciprocità che poggia sul rispetto, l’accettazione e la fiducia, attraverso cui – in diversi gradi- deve trovare il giusto spazio il percorso di cura e guarigione.
Il progressivo distacco da parte del paziente che vede il proprio dottore o specialista del momento trasformarsi in un bravo ed attento lettore di referti di analisi e di immagini radiografiche, trova la sua speculare corrispondenza nella mancanza di fiducia che il medico stesso ha delle proprie percezioni, per paura che siano smentite da una più efficiente e incontrovertibile immagine o dai numeri di un’analisi che con i suoi algoritmi certifica lo stato di morbosità o salute, al di là delle più sensate intuizioni. Particolarmente indicativa l’espressione“ sguardo medico”, coniata dal filosofo francese Michel Foucault, per descrivere il processo di disumanizzazione in atto che separa il corpo del paziente dalla sua persona [1].
Non va ovviamente trascurata la spinta che la nostra struttura sociale opera nel farci credere che lo sviluppo della tecnica garantirà un giorno migliori cure, uno stato di salute migliore, vita più lunga e più sana, anche se è ormai evidente che ad una situazione di “vivere di più”, riservata peraltro a una cerchia limitata di persone vista la limitatezza delle risorse disponibili anche in questo campo, non necessariamente corrisponde un “vivere meglio”.
D’altra parte, perseverare in modo ossessivo nella pretesa di assoluta oggettività e ripetitività ”erga omnes” delle linee guida e dei protocolli diagnostici e terapeutici esclude, secondo una visione condivisa da molti ricercatori [2], uno degli aspetti più determinanti che più può contribuire alla guarigione del malato : la interpretazione ed elaborazione della propria storia personale.
Cercando le ragioni principali di questo svuotamento della relazione di cura, troviamo l’errore di fondo che ha operato la società dividendo in modo del tutto arbitrario, umanità e scienza, medicina e tecnica, razionalità ed emotività, tutte facce di una stessa medaglia che il medico dovrebbe invece essere in grado di osservare, studiare, sintetizzare senza distogliere lo sguardo dal suo paziente.
Eppure, le condizioni per migliorare il processo di cura ci sono: prima fra tutte la conoscenza di come funziona il nostro corpo-mente, oggi più di ieri, ci fornisce molti strumenti per prendersi cura di sé stessi, mettendoci in contatto con il nostro corpo ma anche con la nostra interiorità, aspetti che sperimentiamo quotidianamente nelle nostre dinamiche relazionali.
E’ evidente che senza la cura, “la vita viene meno”. [3]
L’obiettivo del rapporto con il medico non dovrà essere solo il recupero dello stato di salute del paziente ma anche la possibilità per lui di acquisire una nuova consapevolezza nel suo percorso di guarigione e di vita, con a fianco nei momenti di difficoltà, il medico che lo ascolta e lo guida, sempre salvaguardando la su individualità e rispettando i suoi tempi.
Un approccio che comincia a farsi strada in diversi ambienti clinici dove è tenuta particolarmente in considerazione la problematica dell’umanizzazione del rapporto medico-paziente è la cosiddetta “medicina narrativa” che l’Istituto Superiore della Sanità definisce come “una metodologia clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa”.
Il metodo si avvale di colloqui, interviste, scritti, perfino diari che consentono di ottenere una visione “sistemica” del malato, una visione che ne consideri, oltre alla pur accurata anamnesi clinica, il contesto in cui si è sviluppata, le reazioni individuali: in altri termini la sua peculiarità all’interno del mondo soggettivo del paziente.
Un valido esempio degli strumenti ideati per rendere operativamente valido questo metodo è costituito dalla cosiddetta cartella parallela quale utile complemento alla tradizionale cartella clinica, inventato dalla dottoressa e ricercatrice Rita Charon: un documento che contestualizza i freddi numeri delle analisi biometriche del paziente narrando, con il massimo della libertà espressiva, la storia della malattia dal punto di vista del paziente, il suo stile di vita, le sue reazioni emotive, le sue riflessioni ed aspettative…. [4]
E, come sempre, se riusciamo ad allargare il nostro sguardo sull’intero mondo delle relazioni, la nostra natura olistica ci permette di osservare che i benefici di questa modalità di comunicazione che si occupa della nostra interiorità vanno ben oltre il rapporto medico-paziente, perchè ogni qualvolta ognuno di noi è in grado di mettersi in sintonia con l’altro, quando il nostro sentire è in accordo col sentire dell’altro, le nostre vite migliorano di concerto e, anche se non lo percepiamo immediatamente, creano lo spazio per relazioni più armoniche e consapevoli.
La speranza – coltivata nel nostro “fare anima“, riprendendo il titolo di un saggio dello psicologo e saggista James Hilmann, nel prendersi cura dell’altro è quella di far emergere quell’immagine di umanità nascosta che vive nel profondo di ognuno di noi, immagine che, nel nostro tempo scandito dalla fretta e dalla superficialità, siamo costretti a rappresentare stravolta, disumanizzata e – in fondo- innaturale come la sola unica e possibile.
Prof. Luciano d’Abramo
[1] M. Foucault, Nascita della clinica, Einaudi,1998
[2] Si veda per una riflessione più dettagliata di questa ipotesi di genesi della malattia ,il mio recente articolo “I conflitti dell’io : la malattia come tentativo di integrazione”
[3] Si veda su questo tema il saggio di L. Boff, Il creato come carezza. Verso un’etica universale: prendersi cura della terra, Cittadella Editrice, Assisi, 2006
[4] R. Charon, Medicina narrativa, Onorare le storie dei pazienti- Raffaello Cortina Editore